Ho appena finito di
leggere il memoir di Joyce Carol Oates. E’ stata una lettura che mi ha
impegnata per diversi mesi. In realtà non ricordo bene quando l’ho comprato; mi
ricordo solo di essere entrata in libreria, aver girato la testa verso uno
scaffale e aver posato gli occhi su quella copertina: una bambina con un
vestitino rosso a pois bianchi, con il sorriso timido, le mani graziosamente
unite. E poi il titolo: “I paesaggi perduti. Romanzo di formazione di una
scrittrice”. L’ho preso in mano per sfogliarlo e ho subito saputo che non sarei
uscita dalla libreria senza averlo acquistato. Così, col fatto che si prestava
bene a leggerlo un po’ alla volta, senza perdere il filo, il libro mi ha tenuto
compagnia diversi mesi e ha visto avvicendarsi sul comodino molti altri titoli,
venuti dopo di lui e ripartiti prima di lui. Alcuni libri devono stare con te
per un po’: non richiedono fretta, ne’ tensione per essere divorati. Questo, almeno
per me, è uno di quelli. Affermare che mi è piaciuto molto non gli renderebbe
giustizia e del resto vi direbbe poco. E’ un libro intimo, malinconico e
intenso, che svela la personalità dell’autrice, la mette a nudo. Inizia
presentandoci la vita di Joyce bambina, immersa nell’America rurale degli anni
quaranta; incontriamo gli amatissimi genitori, poi un singolare animale da
compagnia, assistiamo alla nascita delle prime amicizie, ai racconti della vita
quotidiana fatta di duro lavoro e semplici gioie. Via via, capitolo dopo
capitolo, seguiamo Joyce nella sua crescita: da bambina a ragazza, poi a donna.
Figlia, moglie, scrittrice, insegnante: a ogni aspetto della vita sono dedicate
storie, ricordi, rievocazioni di sentimenti, il tutto reso ancora più emozionante
dalle foto di famiglia. Quelle foto aggiungono molto al testo, il libro ne
risulta arricchito: per chi legge è piacevole dare un volto ai personaggi di
cui scrive la Oates. Ma c’è da sottolineare anche il loro potere “evocativo”:
credo che, guardandole, a quei volti si sovrapporranno i volti della vostra
famiglia e di coloro che amate o che avete amato. Leggere questo memoir
significa tuffarsi in un’esperienza umana che non potrà non suscitarvi paragoni
con la vostra vita, non potrà non far riaffiorare ricordi che rischiavano di
sbiadire. Per questo, forse, credo che il libro sia da consigliare agli adulti.
“Eravamo
poveri, credo, eppure non sembrava. In qualche modo ce la cavavamo bene.”
“Fino all’età di dodici o tredici
anni trascorrevo le mie ore più felici vagabondando per campi desolati, per
boschi, e lungo gli argini del fiume che passava vicino alla fattoria della mia
famiglia. Nessuno sapeva dove andassi. Nessuno avrebbe potuto immaginare quanto
mi allontanassi.”
“La “biblioteca” della scuola
consisteva in un paio di scaffali e fra i volumi c’era un dizionario Webster,
che mi affascinava: un libro tutto fatto di parole! Un tesoro di segreti,
sembrava a me, disponibile per chiunque volesse cercare.”
“Verso la fine di agosto, in
previsione dell’inizio delle lezioni che sarebbero cominciate in settembre,
dopo il Labor Day, andavo a piedi fino a scuola con la mia scatola nuova di
matite e la gavetta per il pranzo, entrambi regali di nonna Blanche, e mi
sedevo sul gradino di pietra dell’ingresso. Lo facevo per il piacere di
starmene lì a sognare l’inizio delle lezioni: forse per il piacere di godermi
la solitudine e il silenzio che, una volta cominciata la scuola, sarebbero
diventati merce rara”
Joyce
Carol Oates
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