Mi soffermo ancora una volta sui
racconti brevi, già oggetto di un post precedente (“Una sfida per gli audaci”).
E’ un genere difficile, ma può dare enormi soddisfazioni, sia per chi legge sia
per chi scrive. Chi scrive è svincolato dal dover creare una trama complessa,
ricca di personaggi e di avvenimenti; chi legge può esserne intrigato: un
racconto breve, infatti, può avere la forza di un pugno nello stomaco o la
dolcezza di un bacio. Tutto racchiuso in poche pagine, a volte in poche righe.
Se vogliamo scrivere racconti brevi (e può essere un buon esercizio di
scrittura, anche se ciò che scriviamo di solito sfiora le mille pagine!) dobbiamo
tener presente quanto segue:
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Non c’è bisogno che la storia si concluda! Ecco la buona
notizia! Non c’è niente che debba essere risolto per forza alla fine del
racconto. Possiamo chiudere anche mostrando come viene scossa la normale
routine del nostro personaggio dall’accadimento di un “qualcosa”; non dobbiamo
per forza mostrare come poi si risolva il problema. E’ interessante anche
riuscire a mostrare solo le emozioni del personaggio, a far partecipare emotivamente
il lettore al “punto di rottura” vissuto dal personaggio.
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Diamoci pace: le storie brevi richiedono abilità e buone
idee per essere scritte, ma necessitano anche di un lettore attento a percepire
le sfumature (e questo esclude i lettori forzati!). Quasi sempre bisogna saper
leggere le storie brevi, che necessariamente devono lasciare ampio spazio all’immaginazione
del lettore.
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Il racconto dovrà essere semplice, presentare un solo “conflitto”,
avere un numero di personaggi esiguo (massimo due o tre a mio parere).
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Si considerano storie molto brevi quelle da 500 a 1.200
parole; le storie brevi invece vanno di solito dalle 1.500 alle 10.000 parole.
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La buona idea di sempre sarebbe quella di leggere racconti
brevi per acquisire una certa tecnica. Raymond Carver è un maestro del genere.
Infine, quando penso alle storie brevi,
mi vengono in mente, come associazione di idee, le fotografie (specie quelle in
bianco e nero). Quelle foto che vedete in case che frequentate poco, che ritraggono personaggi di
cui non sapete niente, che non conoscete, ma di cui intuite il carattere, i
rapporti di relazione, gli stati d’animo semplicemente osservando quel momento
impresso nella pellicola. Se vi soffermate a osservare attentamente, se
proiettate voi stessi nella fotografia, toccate le superfici dei mobili, il
volto delle persone fotografate, ne toccate i vestiti e percepite il tessuto
sotto le vostre dita, sentite il fruscio del vento (vedete com’è piegato quel
ramo d’albero? E i capelli scompigliati di lei ….), se vi immaginate di essere
finiti nella fotografia e riuscite ad estraniarvi dal mondo reale che vi gira
intorno, allora avrete creato una storia breve, magari anche solo nella vostra
testa, magari senza averla scritta. Allora correte a casa e scrivetela, prima
che vi scappi quest’incanto.
“La gran cosa da fare è resistere e
fare il nostro lavoro e vedere e udire e imparare e capire, e scrivere quando
si sa qualcosa; e non prima; e, porco cane, non troppo dopo”. Ernest Hemingway
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